«Les horizons multiples». La pittura di Jean Constantin.
“Voir lʼhorizon. Et le peindre. Cʼest lui qui détermine le reste de ce que lʼon voit.”
In una stanza della villetta pisana progettata da Federigo Severini alla metà degli anni ’20 del ’900, a due passi da altri luoghi severiniani come il monumentale edificio della facoltà di Ingegneria e la moderna chiesa del Sacro Cuore, l’atelier di Jean Constantin è rimasto intatto. Tutto è nel rigoroso ordine lasciato dal pittore: vasetti ricolmi di pennelli e matite, tubetti di colori, terre e pigmenti, vernici, tamponi, tele e tavolette, ma soprattutto pile e pile di fogli incolonnati in geometrica architettura. Se il tempo si è fermato, lo ha fatto senza lasciare traccia di polvere o ragnatele. Come se ancora ogni cosa sia pronta per una nuova giornata di lavoro a catturare luci e orizzonti, in attesa dell’ennesimo foglio bagnato di mare e di nuvole da aggiungere alla colonna leggera di carte su cui altri fogli, di uguale formato e sostanza, vorrebbero tornare delicatamente a posarsi.
La visita all’atelier spiega molto della pittura di Jean Constantin. E non solo nella scelta esclusiva del tema e della tecnica, ma ancor più per quell’ordine cartesiano degli oggetti che sottintende il valore di una profonda misura poetica e intellettuale, rivelandone la sorprendente chiarezza progettuale. D’incanto, gli infiniti registri atmosferici catturati nella linea di confine tra la terra, il mare e il cielo, restituiti sulla carta dalle morbide vaporosità cromatiche dall’acquerello – ovvero, una scrittura di acqua su acqua – perdono l’apparente immediatezza di brano naturalistico per acquisire, nella ripetizione e nella moltiplicazione del gesto pittorico, il loro reale statuto di frammenti di un discorso più complesso e articolato. Un discorso che merita oggi di essere ricomposto. (1)
A Pisa, Jean Constantin (1924-2009) era arrivato dalla natia Parigi nel 1952 come lettore di francese alla Scuola Normale, portando con sé amori ed entusiasmi che mai sarebbero stati traditi: per la letteratura, per l’arte, per l’Italia. Un bagaglio sentimentale che il destino del nome sembrava imporre, se prima di lui un altro Constantin, per giunta pittore (il ginevrino Abraham Constantin) aveva avuto l’onore di firmare il volume Idées italiennes sur quelques tableaux célèbres, stampato nel 1840 a Firenze per i tipi di Giovan Pietro Vieusseux e scritto con l’amico Stendhal. (2)
E Stendhal e Rousseau erano per Jean i principali riferimenti di solidi e ampi interessi letterari, a cui la pittura offriva, per naturale inclinazione, un prezioso supporto interpretativo. I paesaggi parigini di alcune tele degli anni ’40, prove di un ventenne che desidera comprendere la lezione di Corot ed è aggiornato su Utrillo, sono le testimonianze di un intimo esercizio sentito da subito come necessario e complementare alla lettura e allo studio degli adorati classici.
In una biografia che per tenace riservatezza nulla ha concesso all’esibizione e al pubblico confronto, gli indizi per avviare una riflessione critica andranno cercati proprio nei felici anni pisani. (3) L’incontro con Maria Severini e con l’opera del padre, l’ingegnere-pittore Federigo Severini, traccia infatti le coordinate entro cui circoscrivere le possibili occasioni di sviluppo della sua ricerca pittorica. Perché Maria Severini, assistente nell’Istituto di Storia dell’arte dell’Università di Pisa allora diretto da Carlo Ludovico Ragghianti, autrice nel 1959 del catalogo dei disegni e delle stampe della Collezione Timpanaro e soprattutto signora Constantin dal 1964, significava la certezza di affetti e di profonde complicità intellettuali. (4) E perché Federigo Severini, scomparso nel 1962 e appena conosciuto come possibile suocero, significava una preziosa eredità di temi e idee da conservare, studiare e sviluppare. (5)
L’attenta e amorevole catalogazione del patrimonio di dipinti, disegni e acquerelli dell’ingegnere pisano, figura di rilievo nel panorama delle arti della prima metà del ‘900, sembrava offrire a Constantin la possibilità di riannodare i fili di una lunga tradizione figurativa e letteraria di incanti paesaggistici. Ovvero, di rimeditare su quelle qualità di un paesaggio – di marmi, certo, ma anche di rive e pinete del litorale selvatico – che Pisa aveva svelato alla modernità.
L’elegante naturalismo di Severini, svolto in gran parte lungo gli itinerari sentimentali della pineta di San Rossore, dei profili di Boccadarno o di Marina di Pisa, riproponeva gli scenari poetici di Shelley e Byron, di Maurice Barrès e D’Annunzio, così come la sorpresa dei viaggiatori ottocenteschi. E insieme, riprendeva motivi e suggestioni formali che da Nino Costa passavano a Amedeo Lori e quindi a un’intera stagione della pittura pisana, i cui tratti distintivi invitavano a una inattesa consonanza e complicità.
Si poteva partire da lì, dunque, per individuare nel dato paesaggistico di rive e orizzonti un tema da sviluppare in ulteriori direzioni; e aggiungere altro, magari il ricordo di Friedrich o quello di Courbet e del suo strepitoso Il mare a Palavos, delle spiagge di Boudin, dell’acqua di Manet e della luce e i riflessi di Monet. E su questo, aggiungere ancora, e forse soprattutto, la lettura per tanti allora rivelatrice del Mondrian e l’Arte del XX secolo di Ragghianti, pubblicato in prima edizione nel 1962 e occasione preziosa per riflettere sulla ricerca di un ordine assoluto della rappresentazione.
Prendeva avvio, giusto nel corso degli anni ’60, la produzione di abbreviate annotazioni di frammenti atmosferici immaginati nel punto d’incontro tra il cielo, l’acqua e la riva, eseguiti entro i confini del tavolo dell’atelier e da affidare esclusivamente all’acquerello e a carte di identico formato. Già l’uniformità di tecnica e misura, la costante riproposizione della stessa inquadratura da un’unica finestra interiore, erano scelte che escludevano qualsiasi concessione narrativa e naturalistica. Un occhio a Turner e Whistler, dunque, anche se gli straordinari studi di nuvole di Constable, così come i cieli di Roma catturati al principio dell’800 sui fogli di Valenciennes o Corot, potevano suggerire molto anche a un promeneur solitario nei territori dell’astrazione.
Un promeneur rigorosamente autour de ma chambre, le cui rousseauiane rêveries fissano paesaggi immaginari di una mappa mentale che sembra evocare e unire le marine di Pisa e quelle di Trouville. Nessuna indicazione geografica, solo qualche firma elegante, qualche indicazione di colore e di accordo cromatico – “lumiere cobalt outremer”, “jaune”… – lasciate sul retro di carte spesso riciclate, mai preziose, su cui il pennello trascrive segreti appunti di viaggio, mute partiture musicali che pensano a Debussy, a Ravel.
Una produzione che su questa rigida griglia operativa sarebbe scorsa per quarant’anni, accompagnando vicende personali (la nascita del figlio François, il rientro in Francia, la fondazione della “Fédération nationale des associations d’italianistes” e l’impegno nella promozione della lingua e della cultura italiana, il dolore per la scomparsa di Maria Severini nel 1984), sempre confinata negli ateliers di Pisa e di Parigi e sempre nell’ostinato rifiuto di possibili, e persino già programmate, esposizioni in gallerie.
Eppure, accanto alla moltitudine di carte intrise di sabbia e nuvole, di rive e salmastro, a chiarirne scelte e motivazioni rimangono alcuni appunti lasciati da Constantin sul proprio lavoro e alcune indicazioni lasciate al figlio François su come presentarlo. (6)
Da una parte, la pittura sentita come “exigence fondamentale” che, attraverso un controllato processo di sintesi narrativa e riduzione compositiva, individua nel punto di contatto e di contrasto tra il cielo e la terra l’occasione per liberare l’immaginazione in delicate rarefazioni di luce e colore (Un combat entre le ciel (bleu) et la terre (rouge) arbitré ou/et récompensé par le jaune…). Dall’altra, nel previsto assemblaggio delle carte in ritmate combinazioni di accordi formali e cadenze cromatiche, l’affermazione del valore del multiplo (L’horizon… et les horizons multiples), della continua ripetizione di un’esperienza soggettiva (Ma peinture me donne finalement le droit de dire « Je »… c’est le droit de dire « Je ») che nasce nell’intensità della visione e si realizza nell’evanescenza della materia. Segmenti di un Atlas non-warburghiano, gli acquarelli di Constantin potranno allora inserirsi in quella linea di ricerca sul rapporto tra sentimento del paesaggio e strategie della rappresentazione che da Friedrich arriva a Gerhard Richter, (7) comprendendo, in variate declinazioni, altri protagonisti della contemporaneità.
Perché l’orizzonte immaginato dall’artista è un campo di tennis su cui giocare a colpi di pennello – Une partie de tennis (on se renvoie la balle!) avec l’horizon –, è la traccia di un sismografo interiore su cui registrare sottili oscillazioni estetiche ed emozionali, impresse sulla carta come nuvole leggere sul filo del mare. E sono orizzonti, infine, da impaginare seguendone rime e assonanze, offerti allo sguardo in composizioni che parlano di pittura, che si fanno poesia.
(1) Il presente scritto nasce dalla mostra Jean Constantin. Rivages, allestita al Museo della Grafica (Pisa, Palazzo Lanfranchi) nel 2014 in collaborazione con gli Amici dei Musei. Per la realizzazione di questa prima mostra italiana delle opere di Constantin, come per molte altre iniziative promosse dal Museo della Grafica, determinante è stato l’entusiasmo di Mauro Del Corso.
(2)Abraham Constantin – Stendhal, Idées italiennes sur quelques tableaux célèbres, édition établie et présentée par Sandra Teroni et Helène de Jacquelot, Paris, Beaux-Arts de Paris, 2013.
(3) Un bel profilo di Jean Constantin si deve a Huguette Hatem, In memoriam Jean Constantin, in “Fédération nationale des associations d’italianistes. Compte-rendu”, 2009, pp. 40-43.
(4) M. Severini, La Collezione Sebastiano Timpanaro nel Gabinetto disegni e stampe dell’Istituto di storia dell’arte dell’Università di Pisa, Venezia, N. Pozza, 1959.
(5) Cfr. A. Tosi, Federigo Severini pittore, in Federigo Severini. Opere e progetti, a cura di Federico Bracaloni e Massimo Dringoli, Pisa, Pacini, 2011, pp. 161-172. E ancora A. Tosi, Emozioni sul filo del mare, in La costa pisana: architettura e paesaggio, a cura di Federico Bracaloni e Massimo Dringoli, Pisa, Pacini, 2008, pp. 27-36.
(6) Cfr. vedere il sito www.jeanconstantin.eu
(7) Cfr. Gerhard Richter, catalogo della mostra a cura di B. Corà, Museo Pecci, Prato, 1999.